Pagina:Marino, Giambattista – Adone, Vol. II, 1977 – BEIC 1871053.djvu/553

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139.«Ti reco, o Galathea, da quelle rupi
due pargolette e leggiadrette Damme,
pur che gli ardor ti piaccia interni e cupi
alquanto mitigar de le mie fiamme.
A te le dono, e le sottrassi ai Lupi,
che le toglieano a le materne mamme.
Ma te Lupa crudel non fia ch’io scolpi,
ch’assai peggio il mio cor divori e spolpi.

140.Non mi sprezzar, perch’io di questa roccia
abiti l’aspra e ruvida latebra,
né perché ’l lume mio, ch’a goccia a goccia
per te si stilla, appanni una palpebra.
Non mi schernir, né far che sí mi noccia
l’orgoglio, onde ten vai tumida ed ebra.
S’io sempre a’ tuoi m’inchino e m’inginocchio,
aborrir tu non devi il mio grand’occhio.

141.Ben ch’abbia un occhio solo, io non son orbo,
il mio sguardo è di Lince, e non di Talpe,
ben ti scoprí l’altr’ier presso quel sorbo
il busto mio, ch’avanza Olimpo e Calpe,
col fanciul, ch’io farò pasto del corbo,
ad onta mia scherzar sotto quest’alpe.
Ma s’altra volta il colgo, il mal fia doppio:
io ten farò sentir tosto lo scoppio».

142.Cosí cantava, e volea piú dir forse
col guardo sempre intento a la marina,
quand’egli a caso invèr la falda il torse
che terminava la gran balza alpina,
e de la coppia misera s’accorse,
la qual non prevedea tanta ruina
e d’amor tutta cieca e tutta ardente
al periglio vicin non ponea mente.