Pagina:Marino, Giambattista – Adone, Vol. II, 1977 – BEIC 1871053.djvu/554

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143.«Ah che ben ti vegg’io»> colmo d’orgoglio,
«non luggir, Galathea» disse il Gigante.
«Ti veggio, e la vendetta omai non voglio
piú differir di tante ingiurie e tante;
e vendicar mi vo’ con questo scoglio,
ch’è del tuo duro cor vero sembiante,
e la luce per te non troppo allegra
segnar di questo dí con pietra negra».

144.Detto e fatto in un punto, ecco un fracasso,
ond’intorno il ciel freme, e ’l mar rimbomba,
e d’alto in un precipitato a basso
mezo il gran monte impetuoso piomba.
Sovra il miser Garzon ruina il sasso,
e gli porta in un punto e morte e tomba.
Sotto la rupe, che T percote e pesta,
fulminato e sepolto insieme resta.

145.Io non so qual affetto a l’improviso
piú nel cor de la Ninfa allor s’avanzi,
l’ira contro il fellon, ch’abbia reciso
il bel nodo ch’Amor strinse pur dianzi,
o la pietá del Giovinetto ucciso,
lo qual sí bello ancor le giace innanzi
che non con altri forse atti e pallori
(se potesser morir) morrian gli Amori.

146.«Dunque per te» prorompe alftn gridando
«il fior d’ogni mio ben langue distrutto,
perfido Lestrigon, Mostro essecrando,
portento di Natura immondo e brutto?
Cosí grazia e mercé s’impetra amando?
Cosí s’ottien de le fatiche il frutto?
Non credo no, né fia mai ver, eh’un core
rozo e villano ingentilisca Amore.