Pagina:Marino, Giambattista – Epistolario, Vol. I, 1911 – BEIC 1872860.djvu/122

Da Wikisource.

dall ’unghie del brutto babavo. Se vi verrá in taglio di vederlo sfacendato e di vena, ditegli da mia parte: «Et tu. Domine, usquequo ?». Infino a quando questo diavolo durerá questa festa? «Ubi Sí/ut míserieordiae tuae antiquae. Domine. 1». Dove sono gli onori, i favori, le promesse, le speranze?

Fateli anche sapere che io in questa gabbia sono diventato un rossignuolo; ma non canto altro verso che quello di mon signor Bembo:

Aprisi la prigione in ch’io son chiuso.

Almeno, se non mi vuol dare covelle del suo, restituiscami il mio. La perdita delle mie fatiche mi fa sentir mille morti l’ora, e mi recarei a somma consolazione il ricuperarle. A Torquato Tasso non fu usato mai siinil rigore da Alfonso da Este duca di Ferrara, mentre lo tenne prigione. Se non in altro posso andar del pari con quel grandissimo uomo, almeno son piú matto di lui. Potrebbe il vostro bell’ingegno entrar in guardia e servirmi con un argomento in forma. — Tu di’ d’esser matto: i matti s’incatenano; ergo crepa. — Io mi inetto in porta di ferro e nego consequentinm. La conclusione calzarebbe s’io fossi un pazzo spazzato, come era Orlando, che correva per le strade senza mutande, strascinava li cavalli, disertava le ville e faceva altre simili stravaganze. Ma la mia è una pazzia dove tutta la pretensione che ho si rissolve in attaccarmi un bastone con campanella e dar in testa a missier Giannetto menando la canariglia. Questa è una mercanzia della quale ogniuno ne tira un carato e chi piú si tien savio piú ne pizzica. Ma pongasi il piú savio del mondo nel baratro ove io sono, e saprá dirti se anche il suo cervello alzerá il tuono in sesquialtera.

Finis. Con agurarvi da missier Domenedio quel che vorrei per me, e pregandovi compensar il fastidio che vi dá il mio scrivere col servigio che vi potria far questa carta.

Dal Senato, li x febraro 1612.