Pagina:Marino, Giambattista – Epistolario, Vol. I, 1911 – BEIC 1872860.djvu/199

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alla scolastica e, con le sue larghe e pellicciute mascelle biasciando, masticava filosoficamente profondi sensi di quel viaggio. Tandem , giunta ad un duro e diffidi passo litterale, volse affatto chiarirmi ch’ella avea studiato in garamuffola e, sapendo che gli estremi son viziosi e che la virtú consiste nel mezo, cacciossi dentro un fosso, del quale io non mi potei accorgere per esser nascosto sotto la neve. Io quanto a me penso ch’ella, presa per aventura da un valigino pieno di poesie che portava addosso, venne in capriccio di diventar poetessa e di fare una ballatina: ma fece uno sdrucciolo e smucciando fece a me fare un capitombolo scinn’esco. Indi, afferratomi le coscie coi piedi e ’l collo con le zampe, sporgendomi il ceffo in sul viso e guatandomi in cagnesco, mi faceva mille carezze amorevoli, di maniera ch’io non potei, ancorché giunto a mal partito, ritener le risa che mi scoppiavano a mio dispetto. Per gran pezza credo che non si sarebbe riavuta, se il mio servitore, tiratala per le redine, non l’avesse riscossa gridando: — Arri arri. — Oh mirabil possanza delle parole! Appena intese dir «arri», che imaginando forse ch’io volessi dire «Arrigo», dopo l’aver meco piú volte reiterate le cerimonie mulesche e i convenevoli asinini, premendo i guidaleschi e rompendo lo straccale, subito al suono di quel dolcissimo nome si levò ritta. Or questo no che non sapev’io, che il mio signor Arrigo avesse ancora virtú di far rizzare le bestie. Mi levai alla fine anch’io, ma tutto malconcio dalla caduta, mezo zoppo per una stincata: con la livrea a quartieri, pareva Orlando paladino; e imbrodolato di fango e intonicato di neve, era diventato cavalier di Malta. Dopo questi schiamazzi mi condussi alla sommitá del giogo, dove ha una razza di gente che chiamano «marroni» (credo che sien buoni cotti alle bragie), fastidiosi, importuni, che voglion servirti, vogli o crepi, come quelli dagli stucchietti di Scarperia. Costoro hanno i talloni di ferro, e con certe loro carrette che si dicono «lese» strisciano in giú per le catapecchie di quella pendente, che paiono portati da cento diavoli. Quivi mi venne voglia ancora a me di farmi ramazzare, ma nella calata, circondata non di precipizi ma d’abissi, dissi piú volte l’orazione

G. B. Marino, C. Achillini e G. Preti, Lettere - 1.

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