Pagina:Marino, Giambattista – Epistolario, Vol. I, 1911 – BEIC 1872860.djvu/26

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Picchia, se sai, dá’ voce al carceriero: piú tosto indietro volgerassi il sole, overo il cielo l’aprirá san Piero.

Al fin se ne vien pur, come Dio vuole e fa tremar quest ’antri orrendi e cavi, latrando come un cerbero a tre gole.

Non furo altrui giammai tanto soavi i canti degli augelli in su l’aurora, quant’a me il suon di quel mazzo di chiavi.

— Chi diavol tanto batte? a la malora, gente indiscreta, ciurma di rinaccio ! non posso mai per voi dormir un’ora.

— Deh ! di grazia, signor, non vi sia impaccio, ma vi piaccia da cena di recarmi ; — e li do del «signor» per lo mostaccio.

Egli mi guarda e mira, e un giudeo parmi; poi dice che vedrá, quand’egli riede, mediante pecunia acomodarmi.

O gente senza legge e senza fede 1 che chi non ha quattrin la può sbandire, che insino a mezanotte non si vede.

Quando ritorna poi, li vuol far dire le tue ragion, e tant’oltre presume che a tuo dispetto gliele dèi scoprire.

Sempre di rampognarti ha per costume: che sei misero, scarso, ingrato e vile, e che dai tre bocconi ad un legume.

Ed evvi un’altra usanza piú gentile, cosa da farmi tirar giú le stelle e rinegar il sesso feminile.

Si confondon le lingue e le favelle, che par che sia tornato su le poste il tempo de la torre di Babelle.

Spedisco tutto ’l di corrieri e poste: non posso aver mai cosa a mio capriccio, ancor che ’! sangue e l’animo mi coste.