Pagina:Marino, Giambattista – Epistolario, Vol. I, 1911 – BEIC 1872860.djvu/27

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S’io dico «greco», egli intende «acquaticcio»; se mi vien voglia d’una pestinaca, egli mi porta un canchero in pasticcio.

Io, che so come spesso s’ imbriaca, stringo le spalle né parlar ardisco, e me l’ inghiotto se fosse teriaca.

L’altrier, e a rimembrarlo sbigottisco, ebbe tre giuli e mi recò tre ova, ch’ in corpo avea ciascun un basilisco.

Né scongiurar né lusingar si giova; se contanti non hai, fa’ pur dieta; pietá né cortesia piú non si trova.

Forse che ti vai dir: — Io son poeta, e ti farò un sonetto o una canzone? — il ver sonetto è il suon de la moneta.

Tu potresti esser anco un Salomone, il Bembo gran poeta e cardinale; di fame ti morrai com’un poltrone.

Pur questo alfin sarebbe manco male; ma quel che importa, ancorch’abbi il suo dritto, talora fai digiun quaresimale.

Un che ti porta un’imbasciata, un scritto: va’, di’ che il calamar un po’ ti preste, perché ti veda pallido ed afflitto.

La prima cosa ti guarda la veste, e guarda se il mantello è di buon pelo, s’egli è lograto o del di de le feste.

Poi, come mosso da pietoso zelo, t’essorta com’un frate e dá consiglio, giurando il Verbutn caro e l’Evangelo.

E per tortelo via fuor de l’artiglio, promette con gli ebrei far qualche trappa, ché per un dolce prezzo in pegno il piglio.

Oh male avventoroso chi v’incappa, ché spesso, pien di scorno e di martoro, riman senza quattrini e senza cappa.