Pagina:Marino, Giambattista – Epistolario, Vol. II, 1912 – BEIC 1873537.djvu/107

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di chi l’osserva con la incapacitá del veicolo. Ché veramente troppo sconcia cosa è che il raggio puro, trappassando per un cristallo macchiato, deturpi l’oro finissimo de’ suoi splendori.

10 ammiro in particolare l’uniformitá dello stile che, sempre assorgente e vivace, non mai debole o tenue, specchiando se stesso in sé proprio, rifulge nella perpetua similitudine di tutte le sue parti.

Ha ogni ottava nella chiusa l’uncino d’oro che connette con la seguente; e ciò si vede seguire con tanta maestria e con si architettonico intendimento, che non vi sa che trovare la menda, che apporre l’invidia, che censurare la pedanteria.

11 latte de’ versi, la manna delle frasi, il nettare delle parole, l’ambrosia dell’invenzione apparecchiano si lauto convito, che Adone medesimo invece di Ganimede ne è prelibato coppiere. Hanno le rime un’agilitá che, recitate, non toccano la lingua; ascoltate, non istancano gli orecchi; lette, innamorano gli occhi; cantate, beatificano la musica; e l’anima vorrebbe esser tutta memoria per rubbarle alle carte.

E per dirne il mio senso, meglio sarebbe che si pregiate cose si lasciassero alla posteritá di tempo in tempo per tradizione, che farle communi con altri libri col mezo dell’impressione. Corre il verso con piè spedito e leggiero e cosi ben condotto di periodo, cosi ridondante di sillabe, cosi armonico di numero, cosi appositamente accentuato, cosi perspicuo nella struttura, cosi adequato nel metro, cosi eccelsamente sostentato, e insomma amoreggia seco medesimo con delicatezze in modo singolari, che, se le carte avessero sentimento umano, languirebbono di dolcezza sotto gl’ impronti di cose si belle e gentili. L’invenzione è in gara con l’espressione e contendono di eccellenza e di finezza; ma perché il giudice si suppone per ordinario piú nobile delle parti, resta la controversia indecisa, poiché non vi è perspicacia d’ingegno che non resti da queste altissime altercanti superata. I concetti sono sparsi per il poema con tanta profusione e con tanta ricchezza che, leggendone io in ogni linea non che in ogni stanza, mi raffiguro vedere un quadro ove il pennello di Tiziano abbia effigiato quei garzonetti ignudi, i quali a par con l’alba sorgente versano a diluvio per l’aria i piú odoriferi e i piú vaghi fiori.

Vuole Platone che i poeti niente possano cantare se prima non sono alienati dai sensi e non hanno fatto la conversione dell’ intelletto in mente. Ma a V. S. basta lo spirito del proprio genio,