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XIV

A Giambattista Marino


Lieto che l’amico sia scampato dall’attentato del Murtola, si congratula con lui.

Scrivo in fretta per carestia di tempo. Ho letta la lettera di V. S. e con una mistura di vari affetti ho inteso il tutto. Non so che dirmi altro se non che il Murtola, con Pessempio di colui il quale per acquistarsi un grido eterno volse distruggere il tempio di Diana effesia, ha tentato d’immortalarsi se non con la penna almeno con l’armi scelerate, procurando di struggere il Marino, ottava meraviglia del mondo. Ma perché egli era un tempio dedicato ad una deitá maggiore (a quella, dico, d’Appollo, da cui Diana riconosce il lume), l’infame suo desiderio non ha sortito quei desiderati fini ch’egli si credette. Ma comeché il Marino in quel foco fosse restato consunto, essendo egli nondimeno la fenice della poesia, in quel rogo fatale si saria rinovato; e non rinovato ancora, sarrebbe eternamente vissuto nelle penne, nelle lagrime e nelle memorie di tutto ’l mondo. Io sento tanta allegrezza del fine reale di cotesto negozio, quanto disgusto reca a tutti gli amici l’intenzionale di cotesto scelerato; tanto piu ch’egli, piú tosto condotto da codarda desperazione che da legitima cagione, postosi il canape in seno, ha avuto ardire d’intraprendere si brutta impresa. La quale al sicuro, come V. S. scrive nella sua, è stata vietata dalla beata Vergine, si come anco per decreti astrologici si può congetturare; poiché, avendo V. S. nel suo mezzo cielo la spica della vergine, che forsi misticamente significa la vera Vergine, è stata da si regia e potente positura preservata da si gran pericolo. Ma di questo, parlato che n’avrò col Magini, con piú sicuro fondamento le scriverò per altra mia. Tratanto viva sicura che, come io piú d’ogni altro avrei con lagrime di sangue pianta la sua morte, cosi piú d’ogni altro cordialmente