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XXXIX

Al signor dottore Merlini, a Roma


Gli augura prospero avvenire, e discorre di sé e del suo insegnamento universitario.

In questo punto a Ferrara il primo incontro è stato quello della vostra lettera. Mille grazie, signor Merlini, come d’un caro pegno della memoria che si conserva d’un povero ramingo, se ben sul bel principio mi motteggiate perché non rispondessi ad una vostra di questa estate. Intorno a che vi giuro che, avendola io ricevuta in Vercelli, di Vercelli ancora vi risposi; e se non aveste la mia risposta, non fu gran cosa che tra gl’incendi di quei paesi si smarrisse una carta: non si smarrí però quell’affetto ond’ella fu dettata. Mi rallegro poi che senza legge di riposo vi affatichiate intorno alle leggi. Seguite pure, perché vorrei vedervi rosso per la molta fatica. Forsi che sovra il cielo di cotesta rota non si fanno beati i martiri della corte, e forse che l’ intelligenze del medesimo cielo non influiscono porpore? Seguite, dico, né vi sgomentino le tardanze de’ premi, perché egli è cosa quasi fatale che alla fine cotesta cittá non possa notarsi d’ ingratitudine verso di chichesia. Ché non per altro, mi cred’io, vissero tanto i Serafflni e i Ferratini, se non perché finalmente, incontrando i premi delle lunghissime fatiche, dovessero liberar Roma dall’immeritato titolo di matrigna. Insomma verrá quel tempo nel quale saremo onorati, voi del premio dei vostri studi ed io della veritá dei miei presagi: poiché massime quei concetti che pronunzio delle vostre fortune sono formati dei semi dei vostri meriti ; meriti, dico, non solo civili ma teologici ancora, essend’io consapevole a me stesso ch’oltre il nobilissimo talento dell’avocare, che vi rende riguardevole apresso chiunque vi conosce, il timor di Dio sopra tutte l’altre cose vi sta sempre dinanzi agli occhi.

Quanto poi a cotesti ingegni, che, divisi in due classi, parte lodano e parte biasimano le cose mie, credetemi, signor Merlini,