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XXIX

A Giambattista Marino, a Parigi


Intorno al proprio ritratto, chiesto in dono dal Marino.

Due cose in sostanza mi significa V. S. per la sua lunga del 14 di marzo. Una è eh ’Ella tuttavia aspetta da me desiderosamente ch’io le mandi quel mio ritratto che le proffersi in dono nel suo passar per Parma (quel, dico, il quale mi fu fatto dal Santafede in mia fanciullezza); e l’altra è che Ella s’è risoluta di vendere tutte quante le sue pitture, essendo inoltre entrata con alcuni sensali in istretta prattica d’ effettuarlo. Ad ambedue le quali cose io soddisfarò con una sola risposta, dicendo ch’io donai a V. S. il ritratto perché Ella godesse quello e non perché godesse il prezzo di quello, stante la picciolezza della mia fortuna, la qual non mi fa degno di poter donar danari a un par di lei, a cui appena possono esser Mecenati i supremi principi. Di che m’è testimonio V. S. medesima, la quale nel sudetto suo passaggio per Parma mi disse l’istesso formatamente, e soggiunsemi d’avere una volta rifiutato dal signor duca Ferdinando Gonzaga in Mantova un presente di cinquecento scudi d’oro; se bene io odo per altra via che questa donazione non avvenne in Mantova ma in Torino, con pace di V. S., e che il dono non fu in moneta ma fu in verghe, e che le verghe non furono di metallo ma d’altro, le quali in ogni modo a lei bisognò accettar per forza.

Pensai, dico, da principio d’aver presentato alla S. V. una galanteria da tenersi cara appresso di sé e non una robba da farne esito mercantile. Pure, poiché V. S. vuole ora vendere tutte le sue pitture, sua è medesimamente questa del mio ritratto, ed intenderassi per venduta coll ’altre; ma il comprador d’essa voglio essere io stesso. Il quale, quando sarò da lei avvisato che la detta vendita generale si sia conchiusa ed eseguita, le manderò in tanta pecunia la giusta valuta d’esso ritratto, e questa non come dono ma come prezzo della cosa donata. Il che sará da un venti ducati in circa.