Pagina:Marino, Giambattista – Epistolario, Vol. II, 1912 – BEIC 1873537.djvu/285

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che la lingua de’ toscani trascorre a farlo eziandio dove non dovrebbe, e dice «toito» per «tolto», «scioito» per «sciolto», «accoito» per «accolto», «aitro» per «altro» e si fatti. Con questa medesima regola facciamo da «voglio» «voio», e da «voio» «vói», e da «vói» «vo’»; e parimente da «voglia» nome facciamo «voia», e da «voia» «vói» e da «vói» «vo’»; siccome da «paio» (cioè coppia) facciamo «pai», e da «pai» «pa’»; e da «Pistoia», «Pistoi», e poi «Pisto’»; e da «gioia», «gioi», e poi «gio’»; e da «Cataio», «Catai», e poi «Cata’». Se bene alcuni non curano d’apostrofarli e gli scrivono coll’accorciatura prima. Il che fe’ Guido giudice messinese:

E tutte l’a’tre gioi de lo bel viso.

E fèllo Dante da Maiano:

E ’n gioi poggiare e ’n tutta beninanza.

E fèllo Guitton d’Arezzo:

Durar contra sua voi, contra suo grato.

E dopo loro l’ Ariosto:

La bella donna del Catai regina.

Ed in altro luogo:

Quel ch’al Catai non avria fatto forse.

Il qual verbo «vo’», come monosillabo ch’egli è, s’accentua sempre acuto per se stesso, cioè con innalzamento di voce; ma in composizione acquista accidentalmente natura di grave, cioè d’abbassamento di voce, per rispetto della «i» sincopatavi dal detto apostrofo e sottintesavi. Per lo che, giungendosi con articolo o con pronome, quantunque si proferisca acutamente, non ha virtú di raddoppiar la lettera che segue.

E di qui è che si dice «vóti» (cioè «vòioti» o «vòiti») e non «votti». Perciocché, a voler eh ’una monosillaba acuta conservasse la sua forza (che è il fare il raddoppiamento), bisognerebbe non aver ella tramezo di sincopa tra sé e la parola seguente a cui s’accoppia; quali sarebbono, verbigrazia, queste: «io follo» per «io