Pagina:Marino, Giambattista – Epistolario, Vol. II, 1912 – BEIC 1873537.djvu/297

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nella loro opinione, a me non ha da importar piú che tanto l’investigarlo. E bastami qui dire a lei ingenuamente (conforme al solito mio) che in quelle stanze io non 1’ ho offesa di sorte niuna, dico né col pensiero né coll’opera: atteso che l’ho composte molti anni prima che V. S. fusse cavaliere e sopra soggetto vero; e non mi son mai accorto di questa sospettosa dupplicitá di senso se non solo dopo la maligna esposizione de’ prenominati malevoli, in tempo nel quale essi versi erano giá stampati ed andati per tutta Italia e fuori.

Della qual veritá una parte mi può esser testificata appo V. S. da V. S. istessa, cioè che io le componessi innanzi del suo cavalierato. Perché, essendo Ella di tenace memoria come è, si dovrá infallibilmente rammemorare ch’io in Parma, molti anni sono, coll’occasione di leggere a lei tutto il canto preciso, le feci sentire ancor quelle stanze, e n’ebbi il suo applauso e conseguentemente il suo consenso. Ciò fu in casa del signor conte Pomponio Torelli, presente lui medesimo con alcuni gentiluomini virtuosi, dico i signori Eugenio Visdomini, Scipion Rosa, Lorenzo Smeraldi e qualch’altro che adesso non mi sovviene. De’ quali il signor Rosa in particolare conserva di questo fatto cosi fresca ricordanza, che piú volte m’ha detto di volerne scrivere a V. S. a fin di ridurglielo in mente, in caso che se ne fusse scordata; se bene io confesso che frattanto, per piú cautelarmi, me n’ho fatto da lui fare una fede in iscritto, perché voglio ch’in tutti i tempi apparisca chiara la schiettezza mia e la veritá di quel che una volta ho detto.

Per tutte le quali cose da me fin qui narrate io mi do ora ad intendere di non meritar che da V. S. sia esercitato atto alcuno d’ostilitá o di nemicizia verso la mia persona, siccome nelle dette lettere esso Magnanini ed esso monsú d’Urfé affermano che in parte Ella abbia giá fatto nella Galleria ed in parte minacci di voler fare nella Sampogna e nell’ Adone, opere non ancora stampate né finite; oltre l’avere apparecchiati alcuni sonetti satirici, intitolati Le smorfie , per pubblicategli contra e fargli correre manoscritti, nella guisa che fece i giá composti contra il Murtola, chiamati La murtoleida.