Pagina:Marino, Giambattista – Epistolario, Vol. II, 1912 – BEIC 1873537.djvu/308

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tanto diano a V. S. fastidio quelle tre stanze del mio poema quanto faccia tutto il rimanente d’esso, e che da spirito di livore piú che di vendetta Ella sia spinta a molestar la mia pace, non potendo (come essi dicono) digerire che in questo secolo altra penna che la sola sua acquisti pregio d’aver fabbricato buona poesia eroica. Anzi voglio sicuramente stimare che V. S. si porterá talmente meco, ch’io non abbia poi ad aver giusta causa di dolermi di lei, si come persona ragionevole che è e considerata; la qual sa molto bene ch’io sempre dal mio canto sono stato suo vero amico infin da’ primi anni, non ostanti le giovenili risse giá alcune volte accadute tra noi e poi di subito e con poca difficoltá ricompostesi.

Ed oltre la detta testimonianza mostrata a V. S. nel mio Canzoniero stampato, le fo sapere che l’ho mostrato maggiormente in quella parte del mio poema la qual non è ancora uscita in luce, dove nell’antipenultimo canto io celebro per incidenza ed esalto, per quanto m’è dato, insino alle stelle il suo valore ed il suo ingegno. Noti di grazia V. S. quest’ultima ragione, che a mio giudicio vai sola quanto vagliano unitamente tutte l’altre giá espostele. L’onorevol ricordo fatto di V. S. nel poema chiarirá pienamente a tutto il mondo ch’io nella menzion de!l’«uomo marino» non abbia voluto intendere della persona di lei; non possendo queste due cose stare insieme, cioè che uno istesso autore in uno istesso libro vituperi e laudi uno istesso uomo, se non è in tutto forsennato e pazzo. Il qual ricordo onorevole è molto ben noto ai suddetti poetastri parmegiani e bolognesi, alcun dei quali (dico de’ bolognesi) l’ha letto insin cogli occhi propri e, non gli bastando la lettura, se n’ha voluto prender copia. In particolare un dottor grosso e ventricuto, il quale, caminando pettorutamente a modo di barbassore e troppo dilatando le fimbrie del suo lungo saio e le falde del suo gran cappello, mostra ancora negli atti esteriori d’esser tutto abbottato di vento e tutto gonfio di vanitá; non si però che, in un coll’esser vano, non sia maligno e che non contrafaccia il rospo, il quale giuntamente è tumido ed è velenoso. Ma cosi costui come tutti gli altri scrivono a V. S.