Pagina:Marino, Giambattista – Epistolario, Vol. II, 1912 – BEIC 1873537.djvu/356

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e cautela schivi le dolci lusinghe di quella adulatrice interna che è la propria affezzione, della quale non può l’uomo aver consigliera piú fallace o piú mortale. Questa sola è quella micidial sirena, che nel mar della vita umana può far naufragar le merci delle nostre azzioni e cadérle al fondo d’ogni estrema miseria. Al cui soave canto di leggieri il nostro conoscimento s’addormenta, se con cera di prudenza non gli s’otturano gli orecchi del consenso. La favola antica di Narciso (per altro favola, ma per la sua preziosa moralitá istoria d’oro) ci dimostra evidentemente l’infelice fine di chi troppo ama le sue cose. Ché lo stimarsi da sé e l’aversi caro, bene è naturale instinto in tutti gli animali; ma nell’uomo deve essere insino ad un certo ragionevol segno e non oltre: altrimenti si cade in pazza superbia ed in ridicola arroganza e si vien favola, appunto come accadde al detto Narciso.

In quanto al voler V. S. ch’io di parte in parte renda ragion del mio parere, le rispondo ch’io, come dissi di sopra, non ho tempo da gettare. E tempo gettato mi parrebbe il disputar dove non si ha speranza veruna d’imparare; massimamente che da principio io fui sopra questa materia eletto da V. S. a decidere come giudice, ed ora son citato ad esaminarmi come testimonio, con risico ancora d’avere a poco a poco a calar tanto che finalmente sia accusato come reo. Per la qual cosa a tempo mi disbrigo e mi ritiro, perché non debbo aspettare quel che, venendo, mi noiérebbe. Se vorrá V. S. comandarmi qualche altra cosa, basterá un corto cenno di quattro sue righe, ma non mi scriva piú sopra il giudicar le sue composizioni, ché insino da ora io mi protesto di non averle a risponder parola. Perciò, per finire affatto la prattica, le rimando incluse nella presente lettera esse scritture, si come Ella per 1’ ultima sua m’ha richieduto ch’io faccia, con notificarmi non averne altra copia; benché me n’abbia ricerco con si gelosa fretta e con si sollecito incalzamento, che, a dire il vero, la cosa non meritava in sé la metá della paura che vi s’è mostrata. Se pur V. S. non l’ha fatto acciocché appresso di me non restasse una autentica testimonianza della veritá del mio parlare: ché, in tal caso, io non