Pagina:Mastro-don Gesualdo (1890).djvu/356

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sticando guardando il cielo che formicolava di stelle. La sua anima errava vagamente dietro i rumori della campagna, il pianto del chiù, l’uggiolare lontano, le forme confuse che viaggiavano nella notte, tutte quelle cose che le facevano una paura deliziosa. Sentiva quasi piovere dalla luna sul suo viso, sulle sue mani una gran dolcezza, una gran prostrazione, una gran voglia di piangere. Le sembrava confusamente di vedere nel gran chiarore bianco, oltre Budarturo, lontano, viaggiare immagini note, memorie care, fantasie che avevano intermittenze luminose come la luce di certe stelle: le sue amiche, Marina di Leyra, un altro viso sconosciuto che Marina le faceva sempre vedere nelle sue lettere, un viso che ondeggiava e mutava forma, ora biondo, ora bruno, alle volte colle occhiaie appassite e la piega malinconica che avevano le labbra del cugino La Gurna. Penetrava in lei il senso delle cose, la tristezza della sorgente, che stillava a goccia a goccia attraverso le foglie del capelvenere, lo sgomento delle solitudini perdute lontano per la campagna, la desolazione delle forre dove non poteva giungere il raggio della luna, la festa delle rocce che s’orlavano d’argento, lassù a Budarturo, disegnandosi nettamente nel gran chiarore, come castelli incantati. Lassù, lassù, nella luce d’argento, le pareva di sollevarsi in quei pensieri quasi avesse le ali, e le tornavano sulle labbra