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380 | Meditazioni di un brontolone |
nito per asserragliarvi. Ma l’espugnazione del vostro ultimo riparo, o critici moralisti dell’oggi, non sarà tanto difficile quanto voi mostrate di credere.
Noi potremmo benissimo impugnare intanto, e in-
proprio negare che la critica tabaccosa del pedante mantovano fosse fondata sopra un acuto discernimento e sopra un gusto estetico squisito!
L’Ambrosoli (Manuale della Letteratura Italiana, Firenze, G. Barbèra, 1875) nel volume II, pagina 23, celebra per l’arte e per lo stile le commedie del Machiavelli, senza dar però la preferenza alla Mandragola.
La Franceschi Ferrucci (I Primi quattro secoli della Letteratura Italiana dal XIII al XVI, Firenze, Barbèra, Bianchi e C., 1858) dice che «le commedie del Cecchi, dell’Ariosto, del Bibbiena, del Lasca e del Machiavelli sono, in tutto o in alcune parti, pallide copie di Plauto e di Terenzio,» e non fa la menoma distinzione fra il Machiavelli e gli altri, il che dimostra che la savia gentildonna, la Mandragola o non l’aveva letta o non l’aveva capita. E forse questo giudizio, così poco assennato e cosi poco conforme al vero, intorno ai comici del cinquecento, fu ispirato alla valorosa letterata dallo sdegno che quegli scostumati autori le inspirano per non averle ritratto un certo cotal tipo di donna dabbene, cristiana, massaia, da lei vagheggiato e che avrebbe dovuto rappresentare la donna del cinquecento, quale alla signora Franceschi Ferrucci è piaciuto di figurarsela e immaginarsela, e quale, effettivamente, però non si offerse agli sguardi del Machiavelli, del Dovizi e dell’Aretino. Cosi la signora Franceschi Ferrucci scomunica fieramente i comici di quel tempo perchè e’ furono «licenziosi ed osceni nelle immagini, nelle parole, nelle invenzioni.»
Gran peccato che la signora Franceschi Ferrucci non fosse nata tre secoli prima! Ella avrebbe potuto insegnare al Machiavelli quale fosse precisamente il tipo di donna che egli avrebbe dovuto ritrarre nelle sue commedie e il Segretario Fiorentino avrebbe potuto, probabilmente, soddisfare i desideri di lei e meritarne le lodi.
Il Canello nella sua Storia della Letteratura Italiana nel secolo XIV (Milano, Francesco Vallardi, 1880) nel capitolo IX, § 3° afferma che la Mandragola è una
«fina commedia satirica» in cui le premesse sono storiche e le conseguenze tali
quali da quelle premesse legittimamente dovevano derivare.
Il chiaro prof. Mestica (Istituzioni di Letteratura, Firenze, Le Monnier, 1876) al capitolo 28 acutamente osserva che la «Mandragola fondata sulla massima che la vita non è un giuoco del caso o del destino, ma quale se la forma ciascuno con la sua mente e col suo libero arbitrio, pel contrasto delle passioni, la verità dei caratteri e la bontà dell’intreccio c dello stile, può dirsi la più bella di quelle del Cinquecento e in tutto esemplare, se non fosse deturpata, come le altre di quel secolo, dalla solita licenziosità.»
Il dotto e valoroso critico Alessandro D’Ancona (Origini del Teatro Italiano, Firenze, Successori Le Monnier, 1877) nel capitolo XL, vol. II, afferma che il «Male chiavelli per la Mandragola è degno di starsi terzo fra Aristofane e Molière.»
Il Massarani (Saggi critici, Firenze, Successori Le Monnier, 1884) nel § VIII
del suo bellissimo studio sul Camerini scrive che «nella commedia del Cinquecento stampò un’orma profonda e meglio incisa di tutti il Machiavelli, il quale,
strapotente osò anche nel brutto la commedia umana.»
A più riprese accenna, con ammirazione, alla Mandragola l’illustre Carducci nel suo Svolgimento della Letteratura Nazionale; anzi nel § 5° del discorso V, con pensiero acutissimo, osserva che il Machiavelli e l’Ariosto, quei due colossi del Cinquecento dei quali egli, con novità e profondità ammirevole di concetti ha già