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Pagina:Meditazioni di un brontolone - scritti d'arte e di letteratura (IA gri 33125010115745).pdf/511

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Degli imitatori del Metastasio nel settecento 497

E primo il Carrer, il quale, in uno dei suoi così sottili e così bene avvisati articoli critici, precisamente dagli Arcadi intitolato, domanda: «Chi saprebbe dire che cosa sarebbe stato della poesia italiana, se dalle mani del Marini fosse passata, senza l’intervallo degli Arcadi, in quelle del Monti? Non a caso citiamo il Monti, poiché la magniloquenza e l’armonia dei suoi versi fanno meglio sentire la forza della nostra domanda. Gran che! scriveva di lui il sommo Parini, questo poeta rade sempre il precipizio e mai non vi cade! Tra gli Arcadi cominciò il Monti le sue poetiche prove, portando però fra loro quella sovrabbondanza di naturali disposizioni, bastante, se male usata, a far traviare tutto un secolo.»[1]

Opinione alla quale fa eco l’Emiliani-Giudici, che scrive, parlando del Monti: «Standomi dunque alla preaccennata divisione dei suoi scritti, ammessa dallo universale consentimento degli Italiani» (quella, cioè, per la quale nella vita del Monti si vogliono considerare tre età: quella dell’abate Monti, quella del cittadino Monti e quella del cavalier Monti) «dirò che quando il Monti giunse in Roma, l’Arcadia era in grandissimo onore. Nondimeno egli aveva sentito il progresso letterario operato dal Parini, dal Cesarotti e dall’Alfieri, e allorché cominciò a poetare si mise nella via di quelli, comechè la voga in Roma lo forzasse a vagare congiunto ai queruli e clamorosi pastori fra le delizie del Bosco Parrasio. Come egli avanzava negli anni, il lungo studio ne’ classici lo

  1. Opere scelte di Luigi Carrer, Firenze, Felice Le Monnier, 1855, vol. III della Raccolta, II delle Prose, pag. 511.