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498 | Meditazioni di un brontolone |
avvertì che le frasche arcadiche erano inutilissime, e ne ebbe disdegno.»[1]
E concorde con questi profondo è il fantastico e pur così profonde De Sanctis, il quale, nel su citato Saggio sopra Ugo Foscolo, parlando dell’apparizione del carme I Sepolcri, dice: «L’Italia non aveva ancor visto niente di simile. La lirica, quale te la dava Monti Cesarotti, era cadenza melodrammatica, un prolungamento di Metastasio. Sotto forme dantesche, il fondo rimaneva sempre arcadico, puramente letterario. La coscienza era estranea a quel lavoro dell’immaginazione: malattia dello spirito italiano da gran tempo.»[2]
E d’accordo coi precedenti è il De Gubernatis, che scrive: «Cresciuto in Arcadia, ma ammiratore di Dante, Vincenzo Monti, il poeta di maggior vena dell’età sua, fu pariniano e pindarico nell’ode a Montgolfier, dantesco nella Basvilliana, nella Mascheroniana, nel carme sulla Bellezza dell’Universo, arcade nelle canzonette, pomposamente drammatico ne’ sonetti, eoc. ecc.»[3]
Nè cito altre autorità perchè il fatto è innegabile e sancito dalle parole sopra riportate del Carducci. «Anche il Parini, come tutti, salvo l’Alfieri, i nostri poeti del secolo decimottavo, move dall’Arcadia....»
Sebbene, volendo, si potrebbe appoggiarsi all’autorità del Carrer e sostenere che anche l’Alfieri derivò,
- ↑ Storia della Letteratura italiana di Paolo Emiliani-Giudici, 4ª impressione, Firenze, Feline Le Monnier, 1865, vol. II, Lez. 23ª, pag. 443.
- ↑ F. De Sanctis, op. cit., pag. 155.
- ↑ A. De Gubehnatis, Storia della Poesia lirica nella Storia universale della Letteratura, Milano, Ulrico Hoepli, 1883, vol. III, capit. XI.