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atto primo 167

SCENA IV

Parte interna delle mura di Utica, con porta della cittá in prospetto, chiusa da un ponte, che poi si abbassa.

Catone, poi Cesare e Fulvio.

Catone. Dunque, Cesare venga. Io non intendo
qual cagion lo conduca. È inganno? è téma?
No, d’un romano in petto
non giunge a tanto ambizion d’impero,
che dia ricetto a cosí vil pensiero.
 (cala il ponte, e si vede venir Cesare e Fulvio)
Cesare. Con cento squadre e cento,
a mia difesa armate, in campo aperto
non mi presento a te. Senz’armi e solo,
sicuro di tua fede,
fra le mura nemiche io porto il piede.
Tanto Cesare onora
la virtú di Catone, emulo ancora.
Catone. Mi conosci abbastanza, onde in fidarti
nulla piú del dovere a me rendesti.
Di che temer potresti?
In Egitto non sei. Qui delle genti
si serba ancor l’universal ragione;
né vi son Tolomei dov’è Catone.
Cesare. È ver: noto mi sei. Giá il tuo gran nome
fin da’ prim’anni a venerare appresi:
in cento bocche intesi
della patria chiamarti
padre e sostegno e delle antiche leggi
rigido difensor. Fu poi la sorte
prodiga all’armi mie del suo favore;
ma l’acquisto maggiore,
per cui contento ogni altro acquisto io cedo,
è l’amicizia tua. Questa ti chiedo.