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170 iii - catone in utica


con la funebre pompa
placò del gran Pompeo? Forse ti tolsi
armi, navi e compagni? A te non resi
e libertade e vita?
Emilia.  Io non la chiesi;
ma, giá che vivo ancor, saprò valermi
contro te del tuo don. Finché non vegga
la tua testa recisa, e terre e mari
scorrerò disperata; in ogni parte
lascerò le mie furie; e tanta guerra
contro ti desterò, che non rimanga
piú nel mondo per te sicura sede.
Sai che giá tel promisi: io serbo fede.
Catone. Modera il tuo furor.
Cesare.  Se tanto ancora
sei sdegnata con me, sei troppo ingiusta.
Emilia. Ingiusta! E tu non sei
la cagion de’ miei mali? Il mio consorte
tua vittima non fu? Forse presente
non ero allor che dalla nave ei scese
sul picciolo del Nilo infido legno?
Io con quest’occhi, io vidi
splender l’infame acciaro,
che il sen gli aperse, e impetuoso il sangue
macchiar fuggendo al traditore il volto.
Fra’ barbari omicidi
non mi gittai; ché questo ancor mi tolse
l’onda frapposta e la pietade altrui;
né v’era (il credo appena),
di tanto giá seguace mondo, un solo
che potesse a Pompeo chiuder le ciglia:
tanto invidiati gli dèi chi lor somiglia!
Fulvio. (Pietá mi desta.)
Cesare.  Io non ho parte alcuna
di Tolomeo nell’empietade. Assai
la vendetta ch'io presi è manifesta;