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180 iii - catone in utica


che si renda piú grato, all’altra aurora
differirlo ti piaccia. Oggi si tratta
grave affar co’ nemici, e il nuovo giorno
tutto al piacer può consacrarsi intero.
Catone. No; giá fumano l’are,
son raccolti i ministri, ed importuna
sarebbe ogni dimora.
Arbace. (Marzia, che deggio far? (piano a Marzia)
Marzia. (piano ad Arbace)  Mel chiedi ancora?)
Arbace. Il piú, signor, concedi,
e mi contendi il meno?
Catone.  E tanto importa
a te l’indugio?
Arbace.  Oh Dio!... Non sai... (Che pena!)
Catone. Ma qual freddezza è questa? Io non l’intendo.
Fosse Marzia l’audace,
che si oppone a’ tuoi voti? (ad Arbace)
Marzia.  Io! Parli Arbace.
Arbace. No, son io che ti prego.
Catone.  Ah! qualche arcano
qui si nasconde. (da sé) (Ei chiede...
poi ricusa la figlia... Il giorno istesso
che vien Cesare a noi, tanto si cangia...
Sí lento... Sí confuso... Io temo...) Arbace,
non ti sarebbe giá tornato in mente
che nascesti africano?
Arbace.  Io da Catone
tutto sopporto, e pure...
Catone. E pure assai diverso
io ti credea.
Arbace.  Vedrai...
Catone.  Vidi abbastanza,
e nulla ormai piú da veder m’avanza. (parte)
Arbace. Brami di piú, crudele? Ecco adempito
il tuo comando, ecco in sospetto il padre,
ed eccomi infelice. Altro vi resta
per appagarti?