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188 iii - catone in utica


e due volte è deluso.
Qual disprezzo è mai questo? Alfin dal volgo
non si distingue Cesare sí poco,
che sia lecito altrui prenderlo a gioco.
Catone. Fulvio, ammiro il tuo zelo: invero è grande.
Ma un buon roman si accenderebbe meno
a favor d’un tiranno.
Fulvio.  Un buon romano
difende il giusto; un buon roman si adopra
per la pubblica pace, e voi dovreste
mostrarvi a me piú grati. A voi la pace
piú che ad altri bisogna.
Catone.  Ove son io,
pria della pace e dell’istessa vita,
si cerca libertá.
Fulvio.  Chi a voi la toglie?
Catone. Non piú. Da queste soglie
Cesare parta. Io farò noto a lui
quando giovi ascoltarlo.
Fulvio.  Invan lo speri.
Sí gran torto non soffro.
Catone.  E che farai?
Fulvio. Il mio dover.
Catone.  Ma tu chi sei?
Fulvio.  Son io
il legato di Roma.
Catone.  E ben di Roma
parta il legato.
Fulvio.  Sí, ma leggi pria
che contien questo foglio, e chi l’invia.
 (Fulvio dá a Catone un foglio)
Arbace. (Marzia, perché sí mesta?
Marzia. Eh! non scherzar, ché da sperar mi resta.)
 (Catone apre il foglio e legge)
Catone. «Il senato a Catone. È nostra mente
render la pace al mondo. Ognun di noi,