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258 iv - ezio


Valentiniano.  Duce, un momento
non posso tollerar d’esserti ingrato.
Il Tebro vendicato,
la mia grandezza, il mio riposo è tutto
del senno tuo, del tuo valore è frutto.
Se prodigo ti sono
anche del soglio mio, rendo e non dono:
onde, in tanta ricchezza, allor che bramo
ricompensare un vincitore amico,
trovo (chi ’l crederia?) ch’io son mendico.
Ezio. Signor, quando fra l'armi
a prò di Roma, a prò di te sudai,
nell’opra istessa io la mercé trovai.
Che mi resta a bramar? L’amor d’Augusto
quando ottener poss’io,
basta questo al mio cor.
Valentiniano.  Non basta al mio.
Vuo’ che il mondo conosca
che, se premiarti appieno
Cesare non poté, tentollo almeno.
Ezio, il cesareo sangue
s’unisca al tuo. D’affetto
darti pegno maggior non posso mai.
Sposo d’Onoria al nuovo dí sarai.
Ezio. (Che ascolto!)
Valentiniano.  Non rispondi?
Ezio.  Onor sí grande
mi sorprende a ragion. D’Onoria il grado
chiede un re, chiede un trono:
ed io regni non ho, suddito io sono.
Valentiniano.  Ma un suddito tuo pari
è maggior d’ogni re. Se non possiedi,
tu doni i regni; e il possederli è caso,
il donarli è virtú.
Ezio.  La tua germana,
signor, deve alla terra