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120 xvii - zenobia


nota, che porta al manco braccio impressa

ciascun di nostra stirpe.
Zenobia.   È vero!
Tiridate.   Oh stelle!
Zenobia. Quante gioie in un punto! E donde il sai?
Egle. Da quel pastor, che padre
credei finora. Ei da’ ribelli armeni,
giá corre il quarto lustro,
m’ebbe bambina, e per soverchio amore
piú non mi rese. Or di Zenobia i casi
sente narrar: sa che tu sei; né il seppe
da me; ti serbai fede. O l’abbian mosso
le tue sventure, o che, al suo fin vicino,
voglia rendermi il tolto
onor de’ miei natali, a sé mi chiama,
tutta la sorte mia
lagrimando mi svela, e a te in’invia.
Zenobia. Ben ti conobbi in volto
l’alma real.
Radamisto.   Deh! Tiridate...
Tiridate.   Ah! vieni,
vieni, o signore. Ecco, Zenobia, il tanto
tuo cercato consorte: io te lo rendo.
Radamisto. Perdono, o sposa.
Zenobia.   E di qual fallo?
Radamisto.   Oh Dio!
il mio furor geloso...
Zenobia.   Il tuo furore
per eccesso d’amor ti nacque in petto:
la cagion mi ricordo e non l’effetto.
Tiridate. Oh virtú sovrumana!
Zenobia. Principe, una germana il ciel mi rende, (a Tiridate)
a cui deggio la vita: esserle grata
vorrei. So che t’adora: ah! quella mano,
che doveva esser mia,
diasi a mia voglia almen; d’Arsinoe or sia.