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140 xviii - attilio regolo


di vedermi spirar; ma vegga insieme

che ne trionfa invano,
che di Regoli abbonda il suol romano.
Manlio. (Oh inudita costanza!)
Publio. (Oh coraggio funesto!)
Amilcare. (Che nuovo a me strano linguaggio è questo!)
Manlio. L’util non giá dell’opre nostre oggetto,
ma l’onesto esser dee; né onesto a Roma
l’esser ingrata a un cittadin saria.
Regolo. Vuol Roma essermi grata? ecco la via.
Questi barbari, o padri,
m’han creduto sí vil, che per timore
io venissi a tradirvi. Ah! questo oltraggio
d’ogni strazio sofferto è piú inumano.
Vendicatemi, o padri: io fui romano.
Armatevi, correte
a sveller da’ lor tempii
l’aquile prigioniere. Infin che oppressa
l’emula sia, non deponete il brando.
Fate ch’io, lá tornando,
legga il terror dell’ire vostre in fronte
a’ carnefici miei; che lieto io mora
nell’osservar fra’ miei respiri estremi
come al nome di Roma Africa tremi.
Amilcare. (La maraviglia agghiaccia
gli sdegni miei.)
Publio.   (Nessun risponde? Oh Dio!
mi trema il cor.)
Manlio.   Domanda
piú maturo consiglio
dubbio sí grande. A respirar dal nostro
giusto stupor spazio bisogna. In breve
il voler del senato
tu, Amilcare, saprai. Noi, padri, andiamo
l’assistenza de’ numi
pria di tutto a implorar. (s’alza e seco tutti)