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atto secondo | 157 |
pianger, Publio, dovria
la sorte di chi nasce, e non la mia.
Publio. Di quei barbari, o padre,
l’empio furor ti priverá di vita.
Regolo. E la mia servitú sará finita.
Addio. Non mi seguir.
Publio. Da me ricusi
gli ultimi ancor pietosi uffizi?
Regolo. Io voglio
altro da te. Mentre a partir m’affretto,
a trattener rimanti
la sconsolata Attilia. Il suo dolore
funesterebbe il mio trionfo. Assai
tenera fu per me. Se forse eccede,
compatiscila, o Publio. Alfin da lei
una viril costanza
pretender non si può. Tu la consiglia;
d’inspirarle proccura
con l’esempio fortezza;
la reggi, la consola; e seco adempi
ogni uffizio di padre. A te la figlia,
te confido a te stesso; e spero... Ah! veggo
che indebolir ti vuoi. Maggior costanza
in te credei: l’avrò creduto invano?
Publio, ah! no: sei mio figlio e sei romano.
Non tradir la bella speme,
che di te donasti a noi;
sul cammin de’ grandi eroi
incomincia a comparir.
Fa’ ch’io lasci un degno erede
degli affetti del mio core,
che di te senza rossore
io mi possa sovvenir. (parte)