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ATTO PRIMO

SCENA I

Sala d’armi.

Catone, Marzia, Arbace.

Marzia. Perché sí mesto, o padre? Oppressa è Roma,
se giunge a vacillar la tua costanza.
Parla: al cor d’una figlia
la sventura maggiore
di tutte le sventure è il tuo dolore.
Arbace. Signor, che pensi? In quel silenzio appena
riconosco Catone. Ov’è lo sdegno
figlio di tua virtú? dov’è il coraggio?
dove l’anima intrepida e feroce?
Ah! se del tuo gran core
l’ardir primiero è in qualche parte estinto,
non v’è piú libertá, Cesare ha vinto.
Catone. Figlia, amico, non sempre
la mestizia, il silenzio
è segno di viltade; e agli occhi altrui
si confondon sovente
la prudenza e il timor. Se penso e taccio,
taccio e penso a ragion. Tutto ha sconvolto
di Cesare il furor. Per lui Farsaglia
è di sangue civil tepida ancora;
per lui piú non si adora
Roma, il senato, al di cui cenno un giorno
tremava il Parto, impallidia lo Scita;