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86 | i - didone abbandonata |
SCENA IV [III]
Arborata fra la cittá e ’l porto.
Araspe ed Osmida.
Osmida. Giá di Iarba in difesa
lo stuol de’ mori a queste mura è giunto.
Araspe. M’è noto.
Osmida. Ad ogni impresa
al vostro avrete il mio voler congiunto.
Araspe. Troppa follia sarebbe
fidarsi a te.
Osmida. Per qual cagione?
Araspe. Un core
non può serbar mai fede,
se una volta a tradir perdé l’orrore.
Osmida. A ragione infedele
con Didone son io. Cosí punisco
l’ingiustizia di lei, che mai non diede
un premio alla mia fede.
Araspe. È arbitrio di chi regna,
non è debito il premio; e, quando ancora
fosse dovuto a cento imprese e cento,
non v’è torto che scusi un tradimento.
Osmida. Chi nutrisce di questa
rigorosa virtude i suoi pensieri,
la sua sorte ingrandir giammai non speri.
Araspe. Se produce rimorso,
anche un regno è sventura. A te dovrebbe
la gloria esser gradita
di vassallo fedel, piú che la vita.
Osmida. Questi dogmi severi
serba, Araspe, per te. Prendersi tanta
cura dell’opre altrui non è permesso:
non fa poco chi sol pensa a se stesso.