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120 vii - artaserse


le voci di natura; anch’io provai
le comuni di padre
deboli tenerezze:
ma fra le mie dubbiezze
il dover trionfò. Non è mio figlio
chi mi porta il rossor di sí gran fallo:
prima ch’io fossi padre, ero vassallo.
Artaserse. La tua virtude istessa
mi parla per Arbace. Io piú ti deggio
quanto meno il difendi. Ah! renderei
troppo ingrata mercede a’ merti tui,
se senza affanno io ti punissi in lui.
Deh! cerchiamo, Artabano,
una via di salvarlo, una ragione,
ch’io possa dubitar del suo delitto.
Unisci, io te ne priego,
le tue cure alle mie.
Artabano.  Che far poss’io,
s’ogni evento l’accusa, e intanto Arbace
si vede reo, non si difende e tace?
Artaserse. Ma innocente si chiama. I labbri suoi
non son usi a mentir. Come in un punto
cangiò natura? Ah! l’infelice ha forse
qualche ragion del suo silenzio. A lui
parli Artabano: ei svelerá col padre
quanto al giudice tace. Io m’allontano.
In libertá seco ragiona: osserva,
esamina il suo cor. Trova, se puoi,
un’ombra di difesa. Accorda insieme
la salvezza del figlio,
la pace del tuo re, l’onor del trono.
Ingannami, se puoi, ch’io ti perdono.
               Rendimi il caro amico,
          parte dell’alma mia;
          fa’ che innocente sia,
          come l’amai finor.