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atto terzo 149


del mio caro germano; osserva il seno,
numera le ferite, e lieta in faccia...
Mandane. Taci, parti da me.
Semira.  Ch’io parta e taccia?
Fin che vita ti resta,
sempre intorno m’avrai; sempre importuna
rendere i giorni tuoi voglio infelici.
Mandane. E quando io meritai tanti nemici?
               Mi credi spietata?
          Mi chiami crudele?
          Non tanto furore,
          non tante querele,
          ché basta il dolore
          per farmi morir.
               Quell’odio, quell’ira
          d’un’alma sdegnata,
          ingrata Semira,
          non posso soffrir. (parte)

SCENA VI

Semira.

Forsennata! che feci? Io mi credei,
con divider l’affanno,
a me scemarlo, e pur l’accrebbi. Allora
che, insultando Mandane,
qualche ristoro a questo cor desio,
il suo trafiggo e non risano il mio.
               Non è ver che sia contento
          il veder nel suo tormento
          piú d’un ciglio lagrimar:
               ché l’esempio del dolore
          è uno stimolo maggiore,
          che richiama a sospirar. (parte)