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288 ix - demetrio


Fenicio. E puoi lasciarmi? E vuoi partir? Né pensi

come resta Fenicio? Io ti sperai
piú grato a tanto amor.
Alceste.   Deh! caro padre,
ché tal posso chiamarti
mercé la tua pietá, non dirmi ingrato,
ché mi trafiggi il cor. Lo veggio anch’io
che attender non dovevi
questi del tuo sudor frutti infelici.
Anch’io sperai, crescendo
su l’orme tue per il sentier d’onore,
chiamarti un dí sul ciglio
lagrime di piacer, non di dolore.
Ma chi può delle stelle
contrastare al voler? Soffri ch’io parta.
Forse, cosí partendo,
meno ingrato sarò: forse talvolta
comunica sventure
la compagnia degl’infelici. Almeno,
giacché in odio son io tanto agli dèi,
prendano i giorni miei
solamente a turbar: vengano meco
l’ire della fortuna,
e a’ danni tuoi non ne rimanga alcuna.
Fenicio. Figlio, non dir cosí. Tu non conosci
il prezzo di tua vita; e questa mia,
se a te non giova, è un peso
inutile per me.
Alceste.   Signor, tu piangi?
Ah! non merita Alceste
una lagrima tua. Questo dolore
prolungarti non deggio. Addio! restate.
  (in atto di partire)
Olinto. (Lode agli dèi!)
Alceste.   Vi raccomando, amici,
l’afflitta mia regina. Avrá bisogno