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72 vi - semiramide



SCENA VII

Sibari. L’accortezza che vai, se, ognor con nuovi

impensati accidenti,
la fortuna nemica
d’ogni disegno mio le fila intrica?
Tutto ho tentato invano:
vive Scitalce, e sa la trama Ircano.
Ircano. Vieni, Sibari.
Sibari.   E dove?
Ircano. A Tamiri.
Sibari.   Perché?
Ircano.   Voglio che a lei
discolpi il mio rifiuto.
Sibari.   Il tuo pensiero
come appagar?
Ircano.   Con palesarle il vero.
Sibari. Il vero!
Ircano.   Sí: tu le dirai ch’io l’amo;
. . . . . . . . . . . . . . . . . . 
fu d’apprestarlo; e che dai detti tui
l’inganno a favorir sedotto io fui.
Sibari. Signor, che dici? E pubblicar vogliamo
un delitto comun? Reo della frode
saresti al par di me. Fra lor di colpa
. . . . . . . . . . . . . . . . . . 
Ircano. D’un desio di vendetta alfin Tamiri
mi creda reo, non del rifiuto, e sappia
perché la ricusai.
Sibari.   Troppo mi chiedi:
ubbidir non poss’io.
Ircano. E ben! taccia il tuo labbro, e parli il mio.
  (in atto di partire)
Sibari. Senti. (Al riparo!) Il tuo parlar scompone
un mio pensier, che può giovarti.
Ircano.   E quale?
Sibari. Pria che sorga l’aurora, io di Tamiri
possessor ti farò.