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188 xiii - la clemenza di tito


Tito. Sorgi, infelice! (Sesto si leva) (Il contenersi è pena

a quel tenero pianto.) Or vedi a quale
lagrimevole stato
un delitto riduce, una sfrenata
aviditá d’impero! E che sperasti
di trovar mai nel trono? il sommo forse
d’ogni contento? Ah! sconsigliato, osserva
quai frutti io ne raccolgo;
e bramalo, se puoi.
Sesto.   No, questa brama
non fu che mi sedusse.
Tito. Dunque che fu?
Sesto.   La debolezza mia,
la mia fatalitá.
Tito.   Piú chiaro almeno
spiègati.
Sesto.   Oh Dio! non posso.
Tito.   Odimi, o Sesto:
siam soli; il tuo sovrano
non è presente. Apri il tuo core a Tito,
confidati all’amico; io ti prometto
che Augusto nol saprá. Del tuo delitto
di’ la prima cagion. Cerchiamo insieme
una via di scusarti. Io ne sarei
forse di te piú lieto.
Sesto.   Ah! la mia colpa
non ha difesa.
Tito.   In contraccambio almeno
d’amicizia lo chiedo. Io non celai
alla tua fede i piú gelosi arcani;
merito ben che Sesto
mi fidi un suo segreto.
Sesto.   (Ecco una nuova
specie di pena! o dispiacere a Tito,
o Vitellia accusar.)
Tito.   Dubiti ancora? (comincia a turbarsi)