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198 xiii - la clemenza di tito


Lentulo e i suoi seguaci

e vita e libertá. Sia noto a Roma
ch’io son l’istesso, e ch’io
tutto so, tutti assolvo e tutto obblio.
Annio e Publio.   Oh generoso!
Servilia.   E chi mai giunse a tanto?
Sesto. Io son di sasso!
Vitellia.   Io non trattengo il pianto!
Tito. Vitellia, a te promisi
la destra mia; ma...
Vitellia.   Lo conosco, Augusto:
non è per me. Dopo un tal fallo, il nodo
mostruoso saria.
Tito.   Ti bramo in parte
contenta almeno. Una rival sul trono
non vedrai, tel prometto. Altra io non voglio
sposa che Roma: i figli miei saranno
i popoli soggetti;
serbo indivisi a lor tutti gli affetti.
Tu d’Annio e di Servilia
agl’imenei felici unisci i tuoi,
principessa, se vuoi. Concedi pure
la destra a Sesto: il sospirato acquisto
giá gli costa abbastanza.
Vitellia.   Infin ch’io viva,
fia sempre il tuo voler legge al mio core.
Sesto. Ah, Cesare! ah, signore! e poi non soffri
che t’adori la terra e che destini
tempii il Tebro al tuo nume? E come, e quando
sperar potrò che la memoria amara
de’ falli miei...
Tiro.   Sesto, non piú: torniamo
di nuovo amici, e de’ trascorsi tuoi
non si parli piú mai. Dal cor di Tito
giá cancellati sono:
me gli scordo, t’abbraccio e ti perdono.