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286 xv - ciro riconosciuto


dal piú folto sonar. Mi volsi e vidi

due, non so ben s’io dica
masnadieri o soldati,
stranieri al certo, una leggiadra ninfa
presa rapir. L’atto villano, il volto,
non ignoto al mio cor, destommi in seno
sdegno e pietá. Corro gridando, e il dardo
vibro contro i rapaci. Al colpo, al grido,
un ferito di lor, timidi entrambi,
lascian la preda. Ella sen fugge, ed io
seguitarla volea; quando, importuno,
uom di giovane etá, d’atroce aspetto,
cinto di ricche spoglie,
m’attraversa il cammino, e vuol ragione
del ferito compagno. Io non l’ascolto,
per seguir lei, che fugge. Offeso il fiero
dal mio tacer, snuda l’acciaro e corre
superbo ad assalirmi: io, disarmato,
non aspetto l’incontro; a lui m’involo.
Ei m’incalza, io m’affretto. Eccoci in parte
dove manca ogni via. Mi volgo intorno;
non veggo scampo: ho da una parte il monte,
dall’altra il fiume e l’inimico a fronte.
Mandane. E allor?
Ciro.   Dall’alta ripa
penso allor di lanciarmi; e, mentre il salto
ne misuro con gli occhi, armi piú pronte
m’offre il timor. Due gravi sassi in fretta
colgo, m’arretro, e incontro a lui, che viene,
scaglio il primiero. Egli la fronte abbassa;
gli striscia il crin l’inutil colpo, e passa.
Emendo il fallo, e violento in guisa
spingo il secondo sasso,
che previen la difesa; e a lui, pur come
senno avesse e consiglio,
frange una tempia in sul confin del ciglio.