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288 xv - ciro riconosciuto


Mandane. (ad Arpalice)  Che dici?

Arpalice. Che, se per man d’Alceo
perder dovevi il figlio, era assai meglio
non averlo trovato.
Mandane. Come! Ciro è l’ucciso? Ah, scellerato!
  (volgendosi a Ciro)
Arpalice. (Nol sapea: m’ingannai.)
Ciro. (Dicasi... Ah! no, ché di tacer giurai.)
Mandane. Perfido! E vieni, oh stelle!
a chiedermi difesa? In questa guisa
d’una madre infelice
si deride il dolor?
Ciro.   Non seppi...
Mandane.   Ah! taci,
taci, fellon: tutto sapesti; è tutto
menzogna il tuo racconto. O figlio, o cara
parte del sangue mio, dunque di nuovo,
misera! t’ho perduto? e quando? e come?
Oh perdita! oh tormento!
Ciro. (Resister non si può: morir mi sento.)
Mandane. Arpalice, or che dici?
Era presago il mio timor? Ma tanto,
no, non temei. Perder un figlio è pena;
ma che un vil... ma che un empio... Ah, traditore!
con queste mani io voglio
aprirti il sen, svellerti il core.
Ciro.   Oh Dio!
tu ti distruggi in pianto:
svellimi il cor, ma non t’affligger tanto.
Mandane. Ch’io non m’affligga? E l’uccisor del figlio
cosí parla alla madre?
Ciro.   Eh! tu non sei...
Son io... Quello non fu... (Che pena, oh dèi!)
Mandane. Ministri, al re traete
quel carnefice reo.
(i custodi, disposti ad eseguire il cenno, vegliano sopra Ciro)