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atto terzo 317


SCENA III

Mandane sola.

  Oh me infelice! Oh troppo

verace Mitridate! Avessi, oh Dio,
creduto a’ detti tuoi! Potessi almeno
lusingarmi un momento! E come? Ah! troppo
sdegnato era Cambise;
troppo tempo è giá scorso, e troppo nero
è il tenor del mio fato. Ebbi il mio figlio,
stupida! innanzi agli occhi; udii da lui
chiamarmi madre; i violenti intesi
moti del sangue: e nol conobbi, e volli
ostinarmi a mio danno! Ancor lo sento
parlar; lo veggo ancor. Povero figlio!
non voleva lasciarmi: il suo destino
parea che prevedesse. Ed io, tiranna!...
ed io... Che orror! che crudeltá! Non posso
tollerar piú me stessa (s’alza). Il mondo, il cielo
sento che mi detesta; odo il consorte
che a rinfacciar mi viene
il parricidio suo; veggo di Ciro
l’ombra squallida e mesta,
che stillante di sangue... Ah! dove fuggo?
dove m’ascondo? Un precipizio, un ferro,
un fulmine dov’è? Mora, perisca
questa barbara madre; e non si trovi
chi le ceneri sue... Ma... come!... È dunque
perduta ogni speranza? E non potrebbe
giungere Arpago in tempo? Ah! sí, clementi
numi del ciel, pietosi numi, al figlio
perdonate i miei falli. È questo nome
forse la colpa sua; colpa ch’ei trasse
dalle viscere mie. No, voi non siete