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atto secondo 43


Licida. (Donde viene, in qual punto

mi sorprende costei! Se piú mi fermo.
Aristea non raggiungo.) Io non intendo,
bella ninfa, i tuoi detti. Un’altra volta
potrai meglio spiegarti. (vuol partire)
Argene. (trattenendolo)  Indegno! ascolta.
Licida. (Misero me!)
Argene.   Tu non m’intendi? Intendo
ben io la tua perfidia. I nuovi amori,
le frodi tue tutte riseppi; e tutto
saprá da me Clistene
per tua vergogna. (vuol partire)
Licida. (trattenendola)  Ah! no. Sentimi, Argene.
Non sdegnarti: perdona,
se tardi ti ravviso. Io mi rammento
gli antichi affetti; e, se tacer saprai,
forse... chi sa?
Argene.   Si può soffrir di questa
ingiuria piú crudel! «Chi sa» mi dici?
Invero io son la rea. Picciole prove
di tua bontá non sono
le vie, che m’offri a meritar perdono.
Licida. Ascolta. Io volli dir... (vuol prenderla per mano)
Argene. (lo rigetta)  Lasciami, ingrato!
non ti voglio ascoltar.
Licida.   (Son disperato!)
Argene.   No, la speranza
          piú non m’alletta:
          voglio vendetta,
          non chiedo amor.
               Pur che non goda
          quel cor spergiuro,
          nulla mi curo
          del mio dolor. (parte)