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atto terzo | 61 |
di Licida consorte?
Argene. Ei me ne diede
in pegno la sua destra e la sua fede.
Clistene. Licori, io, che t’ascolto,
son piú folle di te. D’un regio erede
una vil pastorella
dunque...
Argene. Né vil son io,
né son Licori. Argene ho nome: in Creta
chiara è del sangue mio la gloria antica;
e, se giurommi fé, Licida il dica.
Clistene. Licida, parla.
Licida. (È l’esser menzognero
questa volta pietá.) No, non è vero.
Argene. Come! e negar lo puoi? Volgiti, ingrato!
riconosci i tuoi doni,
se me non vuoi. L’aureo monile è questo,
che, nel punto funesto
di giurarmi tua sposa,
ebbi da te. Ti risovvenga almeno
che di tua man me ne adornasti il seno.
Licida. (Pur troppo è ver.)
Argene. Guardalo, o re.
Clistene. (alle guardie, che vogliono allontanarla a forza) Dinanzi
mi si tolga costei.
Argene. Popoli, amici,
sacri ministri, eterni dèi, se pure
n’è alcun presente al sacrifizio ingiusto,
protesto innanzi a voi: giuro ch’io sono
sposa a Licida, e voglio
morir per lui; né... Principessa, ah! vieni,
soccorrimi: non vuole
udirmi il padre tuo.