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38 xvi - temistocle


ho d’abborrirti; e pur non posso; e pure,

ridotta al duro passo
di lasciarti per sempre, il cor mi sento
sveller dal sen. Dovrei celarlo, ingrato!
vorrei, ma non ho tanto
valor che basti a trattenere il pianto.
Lisimaco. Deh! non pianger cosí: tutto vogl’io,
tutto... (Ah, che dico!) Addio, mia vita, addio.
Aspasia. Dove?
Lisimaco.   Fuggo un assalto
maggior di mia virtú.
Aspasia.   Se di pietade
ancor qualche scintilla...
Lisimaco. Addio, non piú: giá il mio dover vacilla.
          Oh dèi, che dolce incanto
     è d’un bel ciglio il pianto!
     chi mai, chi può resistere?
     quel barbaro qual è?
          Io fuggo, amato bene;
     ché, se ti resto accanto,
     mi scorderò d’Atene,
     mi scorderò di me. (parte)

SCENA VI

Aspasia sola.

Dunque il donarmi a Serse

ormai l’unica speme è che mi resta:
che pena, oh Dio, che dura legge è questa!
          A dispetto — d’un tenero affetto,
     farsi schiava d’un laccio tiranno
     è un affanno, — che pari non ha.
          Non si vive, se viver conviene
     chi s’abborre chiamando suo bene,
     a chi s’ama negando pietá. (parte)