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CAPITOLO XVI.

Cicisbei in ritardo.

Nei primi anni del secolo corrente tutto faceva ragionevolmente credere che il cicisbeismo, questa piaga del secolo XVIII, fosse morto in Italia. Il Goldoni e il Parini, che l’avevano messo alla gogna, l’uno nelle sue commedie piene di comicità aristofanesca, l’altro nei suoi endecasillabi riboccanti di sale oraziano, erano di già scesi nel sepolcro, e la Rivoluzione francese, questa grande ed inesorabile liquidatrice della vecchia società, insieme ai nèi, ai guardinfanti, alle parrucche, agli abiti dai colori vistosi, ai tacchetti rossi, alle pettinature architettoniche dei tempi della Dubarry e di Maria Antonietta, aveva fatto scomparire tante e tante altre cose. Una nuova vita era incominciata. I figli di quei famosi cicisbei che i nostri commediografi e i nostri poeti satirici avevano posto in ridicolo, impugnato il fucile, erano corsi a morire sotto gli ordini d’un uomo che non conosceva la galanteria, sino in Ispagna, sino in Germania, sino in Russia. Sotto le mura di Gerona, sulle sponde della Raab, sulle pianure di Malojeroslawez, la generazione uscita dai lombi infrolliti di coloro che non avevano saputo far altro che biascicar madrigali e sonettini alle signore, s’era battuta bravamente, strappando alle mani della vittoria più d’una foglia d’alloro.

Ma nella società non tutto muore in un giorno; le istituzioni, come gli usi e i costumi, sopravvivono, benchè di vita stentata, qualche volta anche clandestina, ai decreti di soppressione. Scomparso il vecchio, il logoro, dalla superficie, esso s’agita nei bassi fondi; cacciato dalla porta, rientra a nostra insaputa dalla finestra; mandato via dal trono sul quale imperava, vi ritorna di nascosto per cercarvi un po-