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CAPITOLO XX.

I Libelli.

Con tanti scandali, in mezzo ad un ambiente siffattamente corrotto, la poesia-libello non poteva far difetto. Peraltro, l’attività dello spirito era troppo compressa, perchè per vie clandestine non rompesse fuori in mordacità e punture che volevano essere satire, ma che spesso erano sconci frutti maturati sul terreno della immoralità. Questa, come si sa, segue dappresso la costrizione del pensiero, e il cavalier Marini, l’abate Casti, il Baffo, il Batacchi non prosperarono che in tempi in cui la censura teneva imbrigliata la stampa. Nè diversamente avvenne in Toscana nel periodo di cui abbiamo intrapreso a favellare; imperocchè, mentre gl’imperiali e regi censori castravano il pensiero e pesavano nelle loro bilancie le parole dei letterati, i libelli correvano da un punto all’altro del paese, senza che la loro clandestinità nocesse alla loro pronta e larga diffusione. Il mistero in cui s’avvolgevano era il miglior passaporto che si potesse loro accordare per correre all’impazzata da una città all’altra.

La Polizia, naturalmente, dava loro una caccia spietata, anche perchè essi talvolta non risparmiavano funzionari altissimi, nè avevano paura di penetrare dentro le residenze dei vescovi. Nel 1825, fu assai diffuso un poemetto in ottava rima, i cui personaggi erano le più note persone d’una certa città. Non vi era risparmiato nè monsignor Vescovo, nè l’illustrissimo signor Commissario regio, nè la stessa signora di questo. Il poeta immaginava come si fosse allora fondato un ordine monastico in onore di Venere Pandemia; e di quest’ordine descrisse con linguaggio osceno i riti. Il libello non poteva passare inosservato; quasi tutta la nobiltà di quella certa città, il cui nome ci piace di lasciare