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XXIII.

La letteratura clandestina.

In un paese dove il pensiero dell’uomo non può manifestarsi che dopo d’aver subito la tortura di quel letto di Procuste che è la censura, la letteratura clandestina, quella che vede la luce alla macchia e si diffonde nell’ombra, può dirsi che occupi il primo posto. Il regio censore non mette il suo visto, in quel paese, che alla letteratura senza impronta d’originalità, senza profondità di concetto, senza arditezza di sentimenti. Letteratura, peraltro, che in Italia, dall’invenzione dell’Indice col relativo codazzo di revisori civili, religiosi, e in qualche parte, come a Roma, coll’aggiunta di quelli della Santa Inquisizione, non mancò di far gemere i torchi della penisola, costretti da un siffatto sistema a non dar fuori che sonetti e madrigali d’Arcadia, cicalate d’accademici, storie redatte da scrittori pagati per tacere, peggio, per mentire, sermoni ed omelie di frati e di vescovi, elementi e trattati di morale e di filosofia imbastiti da scolopi e da gesuiti per castrare l’animo ed inebitire lo spirito della gioventù. In Toscana, ove, è giusto dirlo, la censura era piuttosto tollerante sino ad attirarsi non di rado i rimproveri dell’autorità politica, come vedremo in seguito, i torchi clandestini fornirono nei tempi che descriviamo tutta una letteratura civile elevata, che qualche volta s’innalzava sino a raggiungere il capolavoro o il genere nuovo. Giudizio che a nessuno dovrà sembrare esagerato, quando si pensi che furono stampati alla macchia o all’estero, e segretamente circolarono l’Elogio di Cosimo del Fante e l’Assedio di Firenze, del Guerrazzi, l’Arnaldo da Brescia, del Niccolini, e le Poesie del Giusti; ma oltre ai capolavori, ci fu tutta una letteratura che prosperò nell’ombra, non sempre