Pagina:Misteri di polizia - Niceforo, 1890.djvu/245

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il Montani e il Tommasèo. Era il Montani un ex-prete poco o punto credente (discretamente compromesso agli occhi dei bacchettoni per un certo suo romanzo od intrigo galante svoltosi a Milano) in relazione assai intima con Giuseppe Mazzini, ma scrittore come affermava lo stesso Tommasèo, poco elegante, piuttosto duretto, però ardito. All’incontro, il Tommasèo aveva tutti i requisiti d’un redattore di rivista letteraria battagliera: stile elegante, incisivo, epigrammatico; spirito colto e raffinato, e sotto l’apparenza d’un filologo, d’un raccoglitore di sinonimi e di modi scelti del parlare toscano, un cuore di patriota, un uomo di sentimenti francamente repubblicani, ma sin d’allora cattolico.

I rivolgimenti della Francia, del Belgio e della Polonia non lasciarono indifferenti gli spiriti in Italia. I moti di Bologna e dei Ducati, nonostante che fossero stati repentinamente repressi, gettarono gli animi in una agitazione, che le sètte che allora si stendevano sulla penisola come una rete di ferro, facevano qua e là prorompere in dimostrazioni e in complotti che la Polizia sventava e il carnefice incoronava talvolta della lugubre aureola del martirio, sopratutto a Modena, dove il duca s’atteggiava apertamente a pontefice massimo della reazione, covando in sè il sogno di un regno forte, coi confini da un lato alle Alpi e dall’altro al Po, governato col Codice della Santa Alleanza ed avente per primo ministro, quasi un Metternich ridotto ad uso degli italiani redenti della lue rivoluzionaria ed irreligiosa, il principe di Canosa il quale, in quei giorni, in difetto d’una cancelleria da reggere, fungeva da redattore capo di un giornale, la Voce della Verità. In Toscana, dove il Governo era stato sempre d’una mitezza che contrastava singolarmente colla ferocia che regnava nel resto della penisola, ed accoglieva dentro una certa misura i fuorusciti per causa di libertà, l’agita-