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CAPITOLO XXXI.

Niccolò Tommasèo.

Chi per lungo tempo trovò fieramente nemica la Polizia toscana fu Niccolò Tommasèo. Si stenterebbe a crederlo: pure fu così. Mentre il Guerrazzi, scrittore di libri che suonavano ruggiti di libertà, meno pochi mesi di confino e poche brevi detenzioni in carcere o in fortezza, se ne viveva tranquillamente a Livorno; mentre G. B. Niccolini poteva scrivere e far rappresentare in paese un teatro tragico informato a sentimenti d’indipendenza nazionale; mentre Giuseppe Giusti, sotto un velo trasparentissimo, poteva mettere alla gogna principi e ministri; Niccolò Tommasèo, benchè professante un cattolicismo, che il Guerrazzi, il Niccolini e il Giusti avversavano, ispirò sempre un sacro orrore ai governanti della Toscana, i quali non gli riaprirono le porte del Granducato, che quando credettero d’aver le prove che il lupo insieme al pelo aveva cambiato il vizio.

Naturalmente il Tommasèo, cattolico, ma repubblicano, come non aveva cambiato il pelo, così non aveva cambiato il vizio; e il quarantotto lo dimostrò.

Della parte presa dal Tommasèo alla redazione dell’Antologia, abbiamo già parlato; e forse la famosa parentesi da lui incastonata in un periodo dell’articolo sulla traduzione di Pausania, e sfuggita alla censura e alla Polizia, sarebbe stata dimenticata dal Governo toscano colla sua solita indolenza, se il Tommasèo, sospettando un patto fra la Polizia toscana e quella austriaca e diretto a consegnarlo al Governo cesareo, non avesse abbandonato clandestinamente Firenze. Difatti è inesatto quanto comunemente viene creduto, cioè, che il Tommasèo, in seguito alla soppressione del giornale del Vieusseux, fosse bandito dal Grandu-