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ognuno dovesse, se non poteva in latino, imparare almeno in sua lingua l’orazione domenicale.1 E, venti o trent’anni dopo, Lupo Servato, abate di Ferrières, scrivendo al celebre Eginardo, già allievo della Scuola palatina, e ministro, amico e biografo del grande Imperatore, si doleva che, morto questo, gli studi si fossero quasi spenti di nuovo, e che fosse veduto di mal occhio chiunque desiderava d’imparar qualche cosa.2 Nè va dimenticato, che la coltura classica in Francia trovava anche un formidabile ostacolo nella penuria de’ codici, la quale era incomparabilmente maggiore che tra noi; giacchè non pare che i nostri vicini avessero allora l’abitudine di portarceli via: tutt’al più, ce li chiedevano in prestito. Difatti, lo stesso Lupo di Ferrières, verso l’anno 855, si raccomandava a mani giunte a papa Benedetto III, perchè gli mandasse da Roma alcuni libri: tra gli altri, un De Oratore di Cicerone e un Quintiliano, de’ quali i suoi frati possedevano solo qualche pezzo; e lo assicurava che, appena trascritti, glieli avrebbe scrupolosamente restituiti.3

Avendo dunque i laici in Francia trascurato il latino, e i chierici essendosene serviti quasi esclusivamente per le materie religiose, è natu-

6 — Morandi, Origine della Lingua italiana.
  1. Sancrosancta Concilia etc.; tom. IX (Venetiis, 1729); colonna 338.
  2. Lupi Ferrariensis Epistolae, ap. Du Chesne, Historiae Francorum Scriptores; tom. II, pag. 727.
  3. Ibid., pag. 778-79; e Muratori, Diss. XLIII, ediz. cit.; tom. VIII, col 528-29.