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recapitati; l’idea che quel suo orientamento potesse essere considerato solo legato all’interesse personale dovettero farlo sentire in un vicolo cieco. Non sono soltanto queste missive a Zaccagnini a mostrarlo, con la forza e la durezza del loro linguaggio («... il mio sangue ricadrebbe su voi, sul partito, sul Paese... Il tuo sì o il tuo no sono decisivi. Ma sai pure che, se mi togli alla mia famiglia, l’hai voluto due volte. Questo peso non te lo scrollerai di dosso più», n. 3, f. 9; «... io ripeto che non accetto l’iniqua ed ingrata sentenza della D.C. Ripeto: non assolverò e non giustificherò nessuno», n. 4, f. 6), ma anche le altre lettere, scritte con toni e intenti diversi, rivolte a due tipologie di destinatari.

Delle ulteriori nove lettere qui pubblicate, quattro sono inviate ad alti esponenti politici per il loro ruolo istituzionale: i presidenti della Repubblica, del Senato, della Camera, del Consiglio (rispettivamente nn. 11, 9, 10, 7) e cinque a uomini considerati rilevanti per costruire operativamente la soluzione positiva del sequestro: Tullio Ancora, Renato Dell’Andro, Riccardo Misasi, Erminio Pennacchini, Flaminio Piccoli (rispettivamente nn. 6, 8, 12, 13, 14). Furono scritte negli stessi momenti e recapitate, tra il 28 e il 29 aprile, contestualmente a quella indirizzata alla Democrazia cristiana, sicuramente consegnata il 28: una vera iniziativa politica, con una sua organicità, in un tornante decisivo del sequestro. Nella grammatica della mappa dei destinatari si coglie un disegno che non può non considerarsi di Moro; anche questo è un “documento”, il cui significato risulta dalla relazione tra le singole componenti del corpus delle scritture.

Le lettere ai primi tre presidenti sono pensate con tono ufficiale, la richiesta è quella di un’adesione di natura generale, non operativa. Un appello. Ai due presidenti del Parlamento Moro dà del “lei” e scrive lo stesso testo (nn. 9, 10); per il presidente della Repubblica la distinzione sembra stare nella deferenza, nella scelta di un inchiostro più elegante, nello sforzo – che trapela immane – di una scrittura nitida e composta. Vuole sia pubblica, la lettera a Leone, che è infatti diretta «Alla stampa, da parte di Aldo Moro, con preghiera di cortese urgente trasmissione al suo illustre destinatario. Molti ringraziamenti» (n. 11). Diversa la situazione nella missiva al presidente del Consiglio (n. 7), dove si usa il “tu” ma il tono si innesta su un registro doppio. Il discorso è in equilibrio tra dire e non dire, ed è sostenuto da un sottile ed essenziale ragionar politico, tanto sulla «altissima responsabilità» del presidente del Consiglio quanto sul timore della crisi di governo, che Moro cerca di superare con un giudizio sul sostegno del Pci all’esecutivo, da lui stesso voluto («è difficile pensare che il PCI voglia disperdere quel che ha raccolto con tante forzature», n. 7, f. 1v). Rilevante inoltre, tanto nel merito quanto nell’acutezza, è qui l’affermazione in base alla quale «Contare su un logoramento psicologico, perché son certo che tu, nella tua intelligenza, lo escludi, sarebbe un drammatico errore» (n. 7, f. 1r).

Del tutto diversa è la natura delle altre cinque lettere, scritte quattro-cinque giorni dopo il 18