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il mio diario di guerra 191

Ieri sera, approfittando della serata — la prima non piovosa ho girato un po’ sul campo di battaglia. Non vi è un metro quadrato, letteralmente, che non sia stato lacerato, sconvolto da quattro o cinque granate. Ci sono ancora dei morti abbandonati. Nostri e loro.

All’alba di stamani due bersaglieri zappatori-minatori ci hanno recato la notizia della vittoria francese. Gioia vivissima in tutti. Si discorre meno d’ieri di pace. Intanto, per cambiare, piove. Tempo assassino. I bersaglieri tutti laceri, barbuti, infangati, scrivono le «franchigie», dormono, si spidocchiano, giocano a carte.

Se si raccogliessero tutti i rottami di ferro — proiettili esplosi o da esplodere, pali di ferro dei retilocati, lamiere, arnesi, ecc., — che si trovano su questi campi di battaglia, si caricherebbero treni e treni a tonnellate.

Verso sera, l’orizzonte ad ovest presenta una striscia di carminio. Non piove più.

— A Venezia c’è il sole! — sento dire con voce che tradisce una evidente nostalgia.

Siamo tornati or ora all’accampamento. Oggi l’artiglieria nemica è stato silenziosissima. Soltanto due shrapnels distratti sono caduti nelle nostre linee. Dialogo colto a volo nell’oscurità:

— Ritornare all’Austria le terre che abbiamo conquistato? Questo non sarà mai!

— I nostri morti griderebbero vendetta!

— E non i morti soltanto; anche i vivi! — Domani è l’anniversario della impiccagione di Oberdan.