Pagina:Neera - Una passione, Milano, Treves, 1910.djvu/169

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sto che tamburinava, senza far rumore, sul parapetto della balconata, quasi accompagnando il ritmo della musica giù nell’ampia sala, e allungando e torcendo il collo con un movimento tra il comico e il patetico fissava ansiosamente l’uscio per il quale entravano gli allievi pensando: «Egli è là!»

Venne finalmente l’ultimo pezzo, preannunziato da un silenzio abbastanza lungo. Ippolito apparve pallido, cogli occhi che sembravano ancor più neri su quel pallore.

— Bello! — bisbigliò qualche fanciulla all’orecchio della compagna.

Egli sedette all’organo senza guardare nessuno, ma fin dalle prime note un’alta figura femminile, chiusa in veli bianchi, si rizzò contro la parete di fianco a lui. Ippolito non poteva scorgerne il volto protetto dal velo e dalla oscurità della sala in quel punto, eppure trasalì..., perchè l’aveva riconosciuta.

«O tu che l’anima mia ama» — intuonò la voce profonda dell’organo con una accentuazione così appassionata che parve agli astanti di udire lo spasimo di una voce umana. Tutte le sue forze centuplicate da quella apparizione vibravano con una foga insolita, sorprendendo gli allievi e i maestri che non vi erano preparati, sorprendendo lo stesso pubblico delle mamme e dei dilettanti avvezzi alle interpretazioni