Pagina:Odissea (Pindemonte).djvu/590

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libro vigesimo 209

Delle sventure i vïandanti, quando
Si destina da loro ai Re tal sorte.245
Disse, e appressando il forestiero, e a lui
La man porgendo, Ospite padre, salve,
Soggiunse: almen, se nella doglia or vivi,
Sorganti più sereni i giorni estremi!
Giove, qual mai di te Nume più crudo,250
Che alla fatica, e all’infortunio in preda
Lasci i mortali, cui la vita desti?
Freddo sudor bagnommi, e mi s’empiero
Gli occhi di pianto, immaginando Ulisse,
Cui veder parmi con tai panni in dosso255
Tra gli uomini vagar, se qualche terra
Sostienlo ancora, e gli risplende il Sole.
Sventurato di me! L’inclito Ulisse
A me fanciullo delle sue giovenche
La cura diè ne’ Cefaleni campi;260
Ed io sì le guardai, che in infinito
L’armento crebbe dalle larghe fronti.
Questo sul mare trasportar per esca
Deggio a una turba di signori estrani,
Che nè guarda al figliuol, nè gli Dei teme:265
Mentre de’ beni del mio Sir lontano
La parte, cui finor perdonò il dente,
Con gli occhi ella divora, e col desio.